1. “E’ apparsa la bontà di Dio”.

Vorrei parlare contro “la poesia del Natale”. Mi pare che non ci sia nulla di poetico nella nascita del figlio di due poveri in una grotta adibita a stalla. Ben diversamente dal silenzio arcano di tante rappresentazioni, Gesù nasce in mezzo alla confusione di una cittadina, sovraffollata di gente che viene a iscriversi al censimento di Augusto. Il clan familiare aveva attrezzato la stanza superiore, il katalyma, per l’ospitalità, ma non c’era più posto; così, Maria e Giuseppe debbono adattarsi alla grotticella, al piano interrato della casa, dove di notte venivano custoditi gli animali, per proteggerli dai furti. Forse qualche donna pietosa avrà prestata la sua opera alla giovane puerpera, ma, per il resto, tutti avevano altro a cui pensare.

Certo, la scena notturna al Campo dei  Pastori è di grande bellezza: il Cielo festeggia, la luce è abbagliante, ma amica, e le parole dell’angelo sono quelle delle grandi occasioni: “Non temete; vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi è nato il Salvatore, il Messia atteso”. E’ vero che il segno che vien dato è quasi derisorio: “Troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”. Tuttavia, i pastori sono come i bambini, sono curiosi, e soprattutto non pretendono di imporre a Dio i criteri per scegliere i segni. Essi si recano a Betlemme, trovano il bimbo e la loro gioia è grande, così che parlano a tutti della loro visione e del messaggio che hanno ricevuto. Il commento dell’evangelista Luca è laconico: “Tutti quelli che udivano, si stupirono delle cose dette loro dai pastori”; un modo educato per dire che chi li ascoltava scuoteva la testa, chiedendosi che pazzia fosse mai quella, e al successivo incrocio di strade l’episodio era già dimenticato.

La luce del Campo dei Pastori si è spenta. Se ne accenderà un’altra, molto più piccola, tanto da essere soffocata dalle luci della città: la stella che guida i sapienti d’Oriente. Essi la vedono solo peregrinando nel silenzio del deserto e quando escono da Gerusalemme. Ci sarà un vecchio, Simeone, che prenderà il bambino in braccio, mentre i genitori lo portano al Tempio, e riconoscerà in lui “la luce per la rivelazione alle genti”; ma, come canta Guccini, “i vecchi non sanno, nel loro pensiero, –  distinguer nei sogni il falso dal vero”.

Tuttavia, oggi noi continuiamo a rivolgere lo sguardo a quella grotta e a quel bambino. Che cosa ci attira, in lui? Credo sia proprio il fascino della debolezza di Dio. Bisogna essere poveri, per avvertire la bellezza di un Dio che si fa bambino. Egli non fa paura, non emana decreti, non elargisce grazie sovrane: egli, semplicemente, è lì, nel cuore dolente della storia: altro non vuol essere se non l’Emmanuele, il “Dio-con-noi”, talmente “con noi” che un giorno condividerà la croce dell’uomo.

Bisogna essere poveri, per capirlo. C’è anche un’altra strada, stare con i poveri, imparare da loro la verità sull’uomo, poiché tutti siamo poveri e gli orpelli, dei quali ci rivestiamo, oggi più che mai non bastano a nascondere la realtà. Riconoscere questo, però, non ci accascia, perché udiamo, rivolte a noi, le dolci parole: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi darò ristoro; imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete pace per le anime vostre”. Così dirà, divenuto uomo, quel bambino, rendendo lode al Padre suo, “perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”. Tuttavia, anche i sapienti vengono al presepio: i Magi hanno raggiunto, nella loro ricerca, quel limite, nel quale la sapienza si inchina all’umiltà e all’amore.

2. Siamo pieni di gratitudine.

Vediamo ora che cosa dice questo Natale a noi, impegnati nel cammino dell’Unità Pastorale.

Penso, anzitutto, che il Natale ci inviti alla gratitudine. “Fermati” – sembra dire- guarda, contempla questa luce. Lasciati incoraggiare da questa debolezza di Dio”. Perché guardare sempre alle nostre opere? “E’ apparsa la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini; egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia”, ci ricorda la seconda lettura della Messa dell’Aurora (a Tito 3,4-5). E’ l’opera di Dio che noi dobbiamo contemplare ammirati, per essere consolati, perché ai nostri occhi sia tolto il velo di tristezza e di dolore, di chi ha contemplato le rovine di Aleppo, la brutalità del terrorismo, l’oltraggiosa indifferenza di fronte all’uomo che soffre.

Domani riprenderemo il nostro lavoro e il nostro impegno nel mondo. Oggi, il Signore vuole “parlare al nostro cuore”, secondo la bella espressione di Isaia, e consolarci. Certo, c’è tanta gente attorno a noi che desidera essere consolata: chi è ammalato, chi non ha il lavoro, chi vive situazioni familiari difficili. Ma come potremo consolarli, se nessuno consola noi, se i nostri cuori sono appesantiti, se lo spettacolo del male ci fa sentire impotenti?

3.  Un segno.

Il Signore mette sul nostro cammino qualche piccola luce, che ci incoraggia. Nella settimana di Natale, la nostra Unità Pastorale apre due case di accoglienza, in collaborazione con il CeIS: una, per profughi adulti, nella casetta che la parrocchia di san Pellegrino possiede in via Tassoni e che è stata restaurata con tanta fatica e amore. L’altra è in via Rossena, e accoglie minori stranieri non accompagnati. La cosa bella è che tanti parrocchiani si sono offerti per accompagnare questi ospiti e stanno frequentando il corso per “Adulti Accoglienti”.

Si tratta di un segno: il Signore ci ha consentito di dare riparo a coloro con i quali Egli si identifica, che sono il suo “sacramento”, la sua presenza: “Ero straniero e mi avete ospitato”.

Nello stesso tempo, però, si tratta di un laboratorio. Non è il caso di parlarne ora, ma alcune conseguenze si vedranno subito. Anzitutto, il nostro parlare del grande dramma dell’immigrazione acquisterà in concretezza, uscendo dai luoghi comuni. In secondo luogo, non tutto sarà facile, anzi, si tratterà di una sfida alla nostra carità e alla nostra intelligenza. Anche qui, dobbiamo rifuggire dalla facile poesia. D’altra parte, l’arrivo dei profughi è l’ultimo anello di tutte le contraddizioni del nostro mondo; parlarne solo come di un’emergenza non aiuta, perché si tratta di un mutamento profondo e permanente dei rapporti tra i popoli. Abbiamo bisogno di una buona politica, di cuori generosi e di menti aperte e attrezzate, libere dai luoghi comuni. La responsabilità dei governanti, sia di quelli locali che di quelli della nazione, è grande: non governare questo fenomeno significa, e purtroppo sta accadendo, che cresce nella gente il timore e spesso l’indignazione per le inerzie, le contraddizioni e le incertezze che si avvertono nella gestione di queste persone.

Possiamo parlarne insieme, anzi, lo dobbiamo. La nostra fede libera l’intelligenza, perché ci induce al coraggio: il Signore ci precede, non ci farà mancare la sua luce per una causa così grande e bella.

4. Ai bambini.

Un ultimo pensiero va a i nostri bambini. Ancora una volta, prima di tutto, c’è la gratitudine. Come non commuoversi, di fronte al loro stupore, all’ingenua sapienza con la quale guardano il Presepio? Ma il secondo pensiero dev’essere quello del coraggio: è vero che questo mondo è difficile, ma lo era anche al tempo di Maria e di Giuseppe. Chiedo ai genitori cristiani di riflettere sull’incarico, che l’angelo dà a Giuseppe, di imporre il nome a Gesù. Il nome racchiude il mistero della persona, il pensiero di Dio su ciascuno di noi. In altre parole, come ci ricorda il nostro Vescovo, la nostra “vocazione”, quella chiamata che ci fa passare dal non-essere e dall’insignificanza alla nostra verità e quindi anche alla nostra gioia. Come è bello il compito dell’educatore! Da una parte, tocca a noi trasmettere una storia, alla quale apparteniamo e che rappresenta una ricchezza che ci viene donata: attraverso Giuseppe, Gesù diviene “figlio di Davide”, inserito nella grande storia delle promesse e dell’alleanza. Da Maria e da Giuseppe Gesù impara la storia e la preghiera del popolo di Dio. Non delegate questo compito: raccontate ai vostri figli la storia sacra, ma anche la storia della vostra famiglia. Nello stesso tempo, però, scrutate i segni del dialogo misterioso di Gesù con loro, aiutateli a  rispondergli con fiducia. Ricordate: il progetto di Dio sui vostri figli è ancora più bello delle vostre fantasie più ardite. Imparino, guardando al vostro esempio, a rispondere come Maria: “Eccomi, sono la serva del Signore: si faccia di me secondo la tua parola”.

Buon Natale!

Don Giuseppe

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Una risposta

  1. E’ necessario capire se DG desidera parlare contro il surrogato di poesia del Natale al quale ci siamo abbandonati, o se desidera parlare contro la poesia del Natale, che DG non vede, già insita in quella nascita: ordinaria per necessità contingenti (oggi potrebbe nascere un bimbo su un tram? è accaduto), straordinaria perché quel bimbo si chiamava Gesù. Proprio in quel ‘riparo’, in quell’improvviso ‘silenzio arcano’ nella grotta, sento la più alta forma di poesia alla quale tutte le creature sono state chiamate, sul cammino di una luce e di una voce: “non temere”. Nella grotta, umile all’apparenza, c’è tutto: un bimbo, una madre, un padre, le creature della Genesi, il presagio della morte, l’infinito cielo stellato. Soprattutto è già presente il ‘silenzio arcano’ che noi, oggi, in fondo in fondo, sentiamo e cerchiamo di riprodurre senza riuscire. Quel ‘silenzio arcano’ generatosi di fronte allo spettacolo del Mistero, pur fra la confusione di allora, sarà, per l’uomo, l’eterno richiamo al silenzio e alla trascendenza oltre la confusione. Di oggi e di sempre.
    Quella piccola grotta originaria è stata, e rimarrà per noi, la più alta forma di poesia espressa dal Creatore: la poesia di ogni nascita.

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