“LO SGUARDO”


              Una certa tendenza della teologia cristiana prova fastidio di fronte alla parola “sacrificio”, che pure appartiene alla tradizione: infatti, per esempio, si parla del “sacrificio della Messa”. Si vede in questa parola un residuo mitologico, attestato spesso nell’Antico Testamento, nel quale tutto il culto si svolgeva come una grande macelleria, avente come centro il Tempio di Gerusalemme. In realtà, nella Lettera  agli Ebrei, si dice che Gesù ha abolito i sacrifici antichi, ma per stabilirne uno nuovo, quello offerto una volta per tutte, il suo (Lettera agli Ebrei cap.10).

               Non si tratta di una sottigliezza da specialisti. Infatti, a differenza di Budda, Confucio, Maometto, nel Cristianesimo viene richiesta una decisione non verso la dottrina di Gesù, ma anzitutto verso la sua persona. Nel vangelo di Giovanni, per esempio, si dice: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”(Gv 3,15), L’evangelista si riferisce a un episodio dell’Esodo, quando, per l’ennesimo peccato di idolatria, gli israeliti vengono morsicati da serpenti velenosi. Ma la preghiera di Mosè induce Dio a por fine al castigo: Mosè deve fabbricare un serpente di rame e metterlo su un asta; chi lo guarderà, guarirà dal morso letale. Due particolari vanno sottolineati. Lo strumento di morte, il serpente, diviene fonte di guarigione; in secondo luogo, immaginiamo lo sguardo del moribondo, l’intensità con la quale, disperando di ogni rimedio, egli si trascina, per compiere un atto, dal quale dipendono vita e morte. L’evangelista vede in questo sguardo l’atto della fede, che riconosce anzitutto la propria impotenza, ma anche si consegna all’opera di un Dio, che vuole la “vita eterna” per coloro che egli ama follemente, al punto di sacrificare il Figlio, l’innocente: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. La “vita eterna” significa allora comunione alla vita divina; essa diviene il presente dell’uomo, e plasma i suoi comportamenti a immagine del dono ricevuto.

               Il “sacrificio” è dunque anzitutto quello che Dio offre al l’uomo, la consegna del Figlio innocente ai figli ribelli. Lo sguardo rivolto alla croce significa riconoscere la potenza dell’impotenza: l’amore corre consapevolmente il rischio di essere rifiutato; così infatti sarà sul Calvario. Ma il vangelo presenta la croce come un amore che vuole suscitare, come risposta, l’amore. L’amore è più esigente della Legge morale, e suscita speranza. Compito della Chiesa è mostrare continuamente il paradosso. L’odierna situazione dolorosa e pericolosa del mondo chiede, senza scampo, a che cosa rivolgiamo il nostro sguardo. E’ vero: sembra che le tenebre prevalgano e che le guide del mondo siano dei ciechi. Ma il sacrificio è quotidianamente offerto e noi confidiamo che i cuori di pietra siano sgretolati.

               E’ istruttiva la leggenda, che ha dato origine alla festa dell’Esaltazione della Croce, che viene celebrata questa domenica. Si narra che nel 610 i persiani conquistarono Gerusalemme, compiendo distruzioni e stragi. L’imperatore di Costantinopoli, Eraclio, ingaggiò con loro una lotta mortale, riuscendo a sconfiggerli, nell’anno 628. Egli pose, come prima condizione per la pace, la restituzione della reliquia della santa Croce ritrovata da Elena, madre di Costantino, trecento anni prima. Così, nell’anno 628, l’imperatore, a cavallo, con le magnifiche insegne del suo grado e seguito dai più alti dignitari in uno splendido corteo, si avviò per entrare nella Santa Città, portando la preziosa reliquia. Ma, proprio sulla porta, una forza misteriosa lo fermò e, per quanti sforzi facesse, non riuscì più a muovere un passo. Tutta la folla, allibita, non sapeva come spiegare questo misterioso fenomeno. Ma il patriarca Sofronio si avvicinò a Eraclio e gli disse: “Considera, o imperatore, se sia opportuno che tu percorra, a cavallo e splendidamente vestito, la strada che Nostro Signore ha fatto, umiliato e disprezzato”. Allora, l’imperatore scese da cavallo, si tolse le splendide vesti e indossò un vestito di penitente; così fece anche il suo seguito. A quel punto, egli potè varcare la porta e umilmente portare la Croce nella Basilica del Santo Sepolcro.

14 settembre 2025                                                                don Giuseppe Dossetti