Dodicesima lettera alla comunità al tempo del coronavirus

 

                Oggi è Pentecoste: cinquanta giorni dopo la Pasqua, lo Spirito Santo scende su Maria e i discepoli nel Cenacolo di Gerusalemme e inizia la storia della Chiesa. Le lingue di fuoco rappresentano l’energia del messaggio e la sua universalità: è l’esatto contrario di Babele, quando le lingue si confondono, quando l’altro diventa straniero, nemico, minaccia, non più fratello.

                E’ vero, però, che la Chiesa è santa e, nello stesso tempo, peccatrice: la dolorosissima vicenda di fratel Enzo Bianchi e della comunità di Bose ce lo ricordano. Persino là, dove ci si riuniva per ricostruire l’unità dei cristiani, si è infiltrato il demone della divisione.

                Dunque, la Chiesa è come tutti gli altri? In un certo senso, sì, e ricordarlo ci fa bene, ci impedisce atteggiamenti di superiorità e giudizi sprezzanti. Ma la Chiesa è anche altro e il passo del vangelo di oggi ce lo mostra.

                Gesù, risorto, oltrepassa le porte chiuse del Cenacolo e saluta i suoi con la parola “Pace!”. Pace vuol dire perdono, un nuovo inizio, anzi, una nuova creazione, come suggerisce il soffio che egli spira sui discepoli, come al principio aveva fatto Dio sulla statua di fango. Ma il dono dello Spirito ha un prezzo e Gesù lo sottolinea, mostrando le ferite della passione. Non c’è certamente merito, nei discepoli, ma, d’altra parte, solo l’enormità del dono, dell’amore fino alla morte, può dare speranza all’uomo, segnato dal male subìto e soprattutto da quello compiuto.

                Qui avviene il rovesciamento del nostro modo di vedere. Noi non crediamo veramente al perdono: in realtà, noi intendiamo riparazione, risarcimento. Se tu ripari al male che hai fatto, allora ti perdonerò. Perdonarti così, senza che tu lo chieda, senza che tu mostri un qualche segno di pentimento … urta il nostro senso di giustizia. Eppure, è esattamente quello che avviene sul Calvario e viene annunciato nel Cenacolo. Tutto è perdonato, già in anticipo, a tutti; a tutti è offerta la pace, che la chiedano o no. Dio si espone al rifiuto, al disinteresse, alla beffa: ma il perdono rimane, come rimangono le piaghe nel corpo del Risorto. Verrà il momento, dice Dio, quando tu capirai e scioglierai il ghiaccio che ti imprigiona e mi permetterai di abbracciarti.

                Dio prende il rischio del perdono gratuito; egli è certo che proprio il dono diventerà stimolo all’azione. Per questo, Gesù dice: “Come il Padre ha mandato me, io mando voi”. La storia della Chiesa, per fortuna, ci mostra uomini e donne che hanno capito e intendono pagare un debito di riconoscenza e di amore: più cresce l’amore, più ci si sente debitori, nella gioia di entrare anche noi nella vita e nel disegno di Dio.

                “A chi perdonerete i peccati, saranno perdonati”, conclude il Risorto. Troppe volte, questo testo è stato riferito al solo sacramento della confessione. In realtà, il sacramento è come un sigillo, il punto estremo di qualcosa che è compito di tutti i cristiani. Anche per i discepoli, il perdono va dato gratuitamente, confidando che esso immetta nella storia l’energia del perdono di Dio. Grande responsabilità! Infatti, a “coloro a cui non perdonerete, i peccati non saranno perdonati”: metteremmo ostacolo alla volontà e all’azione di Dio.

                Il perdono è un atto creatore: non solo perché non c’è nulla prima, né merito né diritto; ma soprattutto perché è un atto liberante, spezza la catena delle vendette e delle rivalse, apre lo spazio della gratitudine e dell’azione generosa. Il cristiano può osare il perdono: la sua ricompensa è il sentirsi un po’ più vicino al suo Signore.

don Giuseppe Dossetti

 

31 maggio 2020