Centocinquantasettesima lettera alla comunità al tempo del coronavirus, della guerra, del terremoto e dell’alluvione. – Don Giuseppe

La frequenza alla Messa domenicale, in Europa, è scesa in certi paesi sotto il tre per cento. In Italia, stiamo meglio, ma il calo si sente anche da noi. Eppure, tante persone continuano a dichiararsi cristiane: solo, non riescono a dare significato al momento liturgico. Essi apprezzano, e magari partecipano, all’impegno sociale della Chiesa, trovano nelle parrocchie uno spazio di aggregazione e, nella Messa, si interessano all’omelia del sacerdote, se è ben curata; il simbolismo dei riti parla ancora, ma può essere sostituito da una conferenza, una mostra, un libro.

              Il Fondatore, però, non si accontenta. Già nella sua vita storica, non ha mancato di provocare scandalo, con certe sue affermazioni talmente ardite da sembrare incomprensibili. Nella cena pasquale del suo popolo, il pane e il vino ricordavano la liberazione dall’Egitto: egli, però, afferma che essi sono il suo corpo e il suo sangue. Arriva persino a dire che bisogna mangiare la sua carne e bere il suo sangue, se si vuole avere la vita. Tutto questo risulta incomprensibile ai suoi contemporanei, al punto che molti, tra i suoi seguaci, lo abbandonano, dicendo: “Questo discorso è troppo duro!” (Gv 6,60).

              Si tratta di uomini religiosi: essi abbandonano Gesù non perché non hanno capito, ma forse perché hanno capito fin troppo. La carne e il sangue rappresentano la morte e il Maestro chiede di “mangiarla”, cioè di unirsi a lui sulla via della croce. In altre parole, si tratta di accettare un modo diverso di pensare alla propria vita, di collocarsi nella storia e nei suoi drammi.

              Noi siamo abituati a misurare l’efficacia delle nostre azioni e a valutare il successo delle nostre imprese. Gesù chiede una decisione nei confronti della sua persona, del suo corpo sanguinante, del sangue che sgorga dal suo petto trafitto dalla lancia del soldato: “Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita” (Gv 6,53): non solo non sarete miei discepoli, seguendo una via difficile, ma nobile; ma non avete in voi la vita. Quale vita? La vita divina: “Come il Padre – Dio -, che ha la vita ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me”. Questa “vita” è pace e gioia, è comunione, è strumento di riconciliazione e di perdono, è anticipo di eternità. Sembra che dica: se non seguite la mia via, sarete infecondi e rattrappiti nella difesa di riti e cattedrali, di istituzioni e di norme, ma non riuscirete a dire parole liberanti, che diano speranza. Non solo, ma il mondo cercherà l’alleanza con voi: vi chiederà di fornire giustificazioni alle sue guerre e ai suoi egoismi, salvo poi accusarvi di inutilità e persino (supremo paradosso), di aver tradito il messaggio e l’esempio del Cristo.

              La Messa rimane un benefico e fecondo scandalo. Colui che, attraversando i secoli, è presente di fronte alla sua comunità, non chiede solo di ascoltarlo: chiede, offre un rapporto vitale, una presenza efficace, che illumini la mente e sostenga, nelle decisioni più difficili. Egli, spesso, non fornisce spiegazioni, per quello che chiede, ma ripete le parole del Padre suo: “Non temere, io sarò con te”.

              Non meraviglia che il mondo continui a credere, nonostante le smentite della storia, che si possano affrontare le sfide e i problemi con la forza, le armi, il denaro, la propaganda. Tocca a noi, seguaci, anche se spesso infedeli, del Figlio dell’uomo, mostrare che esiste un’alternativa. La Messa rivela allora la sua grandezza e bellezza, la sua forza di consolazione; ci consente di conservare la libertà di fronte agli idoli del mondo e ci persuade che la pietà verso i piccoli, la responsabilità verso chi soffre, non sono debolezza, ma spiragli di vita.

11 giugno 2023                                                                                     don Giuseppe Dossetti