Quando chiedono a Gesù quale sia il comandamento più grande, egli risponde, citando le Scritture, che è l’amore di Dio con tutto il cuore; ma aggiunge che il secondo è “simile” al primo, ha la medesima importanza: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”.

              In questi giorni difficili, abbiamo avuto tanti  esempi  di amore per il prossimo: basta leggere le motivazioni dei riconoscimenti dati questa settimana dal presidente Mattarella a medici, infermieri, cassiere, autisti, comuni cittadini. Ne siamo orgogliosi, ma non possiamo sottrarci a un sentimento di incertezza, di fronte a un male che ci ricorda quotidianamente i nostri limiti e l’orizzonte della morte.

              Ci conforta un testo della Prima Lettera di san Giovanni: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio” (4,7). L’amore allarga i nostri desideri, perché in esso esiste già, in frammento, l’esperienza di Dio. Chi mangia il pane dell’amore di Dio, ne avrà fame ancora, anzi, questa fame crescerà. Non sempre sarà un percorso facile. Ci saranno i momenti di sconforto, la protesta per le richieste non esaudite, l’angosciata domanda sul senso di tanto dolore. Eppure, nessuno che abbia mangiato questo pane vi rinuncerà. Infatti, l’impegno nell’amore nonostante tutto, dilata l’anima dell’uomo: “Dio li ha provati come l’oro nel crogiolo e li ha trovati degni di sé” (Sapienza 3,5-6). Degni di Dio! E’ per questo che Israele non può e non vuole liberarsi dal peso, talvolta terribile, di essere il “popolo di Dio”.

              Giovanni prosegue: “Se uno dice: Io amo Dio, e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (4,20). Questa frase richiama, anzitutto, la necessità che l’amore sia carne e sangue, non un puro sentimento. E’ giusto che sia così: l’autenticità dell’amore è dimostrata dalla decisione che esso ci chiede, una decisione che ci costringe ad affrontare le nostre pigrizie, le paure e i dubbi. Ecco perché il secondo comandamento è “simile” al primo: esso può riguardare un piccolo frammento della nostra vita, ma avvertiamo che lì si gioca la fedeltà a noi stessi, la nostra dignità, il “tutto” che desideriamo essere. Per noi credenti, l’appello al rischio e al superamento di noi stessi viene da Dio e la risposta è rivolta a quel “Tu” del quale conosciamo il nome. Nello stesso tempo, però, noi riteniamo che ogni uomo, anche chi non è credente, sia attratto verso un orizzonte che si rivela infinito, che conosce il nostro nome, anche se noi non conosciamo il suo.

              Ascoltiamo ancora Giovanni: “Noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore: chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui” (4,16). Come è possibile che Dio rimanga in noi, nei nostri confini di creature, confermati dall’esperienza di questi mesi? Ecco perché l’amore del prossimo è “simile” all’amore per Dio: nella nostra piccola realtà, se sincera, possiamo dire di avere “conosciuto l’amore”. Ma esso tende al suo modello: lo rappresenta, ce ne dà il sapore, suscita in noi il desiderio. Chi “sta nell’amore” sente il dovere della ricerca ma gode della promessa che un Amore più grande ci attende. Nell’amore, l’eternità entra nel tempo e il nostro piccolo tempo entra nell’ Eterno.

25 ottobre 2020                                                                      don Giuseppe Dossetti