“MADRE”


               Non tutti conoscono il criterio, che un ebreo ha, per riconoscersi tale. Ebreo è colui che è nato da una madre ebrea. Esistono anche i convertiti da altre religioni o adesioni in età adulta, ma la grande maggioranza riconosce la propria identità, grazie a questa linea matriarcale.

               Non è il caso di richiamare delle volgarità, come la citazione latina, “pater incertus, mater semper certa”. La ragione è invece molto profonda e anche sorprendente, perché gli ebrei si riconoscono “figli di Abramo”, è lui il padre nella fede; ma, nello stesso tempo, è il figlio di Sara, “il figlio della promessa”, Isacco, ad essere il capostipite del popolo di Israele.

               Il fatto che sia la madre a trasmettere l’appartenenza al popolo, all’alleanza, alla promessa, vuol dire, a mio parere, una cosa grandissima sul ruolo della madre. Non si privilegiano caratteristiche pure importanti, come la tenerezza, l’accoglienza: è invece proprio la fede a essere trasmessa, quindi l’identità e, come dicevo, l’appartenenza all’”alleanza”, che non è un puro dato anagrafico, bensì la costituzione di un’identità e di un ruolo, principalmente quello di tenere viva la speranza.

               Quante riflessioni si potrebbero aggiungere, confrontando questa vocazione dell’Israelita con la situazione terribile che è sotto ai nostri occhi! Proviamo a osare. La madre è anzitutto colei che dà la vita, “Havva”, Eva. Troppo spesso, la discendenza patriarcale diviene violenta e mortifera: pensiamo a Caino. Tuttora, sono le madri, in Israele, a chiedere con coraggio straordinario, la cessazione della guerra. Ecco, il coraggio. Abbiamo un esempio ultimativo nella storia dei fratelli Maccabei e della loro madre: ”Soprattutto la madre era ammirevole e degna di gloriosa memoria, perché, vedendo morire sette figli in un solo giorno, sopportava tutto serenamente per le speranze poste nel Signore. Esortava ciascuno di loro nella lingua dei padri, piena di nobili sentimenti e, temprando la tenerezza femminile con un coraggio virile, diceva loro: “Non so come siate apparsi nel mio seno; non io vi ho dato il respiro e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi. Senza dubbio il Creatore dell’universo, che ha plasmato all’origine l’uomo e ha provveduto alla generazione di tutti, per la sua misericordia vi restituirà di nuovo il respiro e la vita, poiché voi ora per le sue leggi non vi preoccupate di voi stessi” (Macc 7,20-24). Che differenza, rispetto alle madri dei soldati spartani, che, consegnando lo scudo ai figli, dicevan loro: “O con questo o sopra di questo”: cioè, o conservando lo scudo, quindi vincitori, oppure, morti, essere portati a Sparta sullo scudo diventato il feretro. In altre parole, vincere o morire; ciò che è escluso, è il perdere lo scudo, perché lo si getta per fuggire.

               La maternità, a Sparta, diviene funzionale alla guerra, all’idolo della vittoria. La madre dei Maccabei, invece, ricorda ai figli, in una situazione estrema, di conservare la fede che ella gli ha trasmessa.

               Forse si può andare anche oltre. Gesù è ebreo e anche lui ha vicino la madre nel momento tragico della morte. Come uomo, Gesù acquisisce la sua identità tramite Maria. Dante lo ricorda, nel paradosso che apre l’ultimo canto della Commedia: “Vergine madre, figlia del tuo figlio”. Questa maternità, Maria la esercita anche nei confronti della Chiesa, di noi, che la festeggiamo ormai vivente nell’eternità, in questo giorno dell’Assunta. Assunta, non assente! L’eternità è la presenza di Dio nella storia; questo avviene grazie a Maria. Gesù, negli ultimi istanti della sua vita, ci consegna a lei: “Donna, ecco tuo figlio, ecco i tuoi figli”.

               La pace passa dall’intercessione di Maria, anzi, ancora di più, da lei, se ci lasciamo guidare ed educare a realizzare la nostra identità di figli.

15 agosto 2025                                                                    don Giuseppe Dossetti