Il sei agosto del 1945 una luce abbagliante e mortale distruggeva la città giapponese di Hiroshima. La prima bomba atomica cambiò la coscienza dell’uomo: da allora, sappiamo che siamo in grado di distruggere noi stessi. Possiamo vantarci dei trionfi della tecnologia, ma rimane pur sempre in noi questo immane senso di colpa. Assomigliamo a dei naviganti, che vedono da lontano una meta meravigliosa, ma sanno che in ogni momento la loro imbarcazione può affondare.

              Nello stesso giorno, ogni sei di agosto, la Chiesa fa memoria della Trasfigurazione di Gesù. Anche qui, risplende una luce folgorante, che trasforma, “trasfigura” la persona di Gesù, e abbacina i tre discepoli che lo hanno seguito nella salita del monte Tabor. E’ una luce amica, che fa esclamare a Pietro: “Maestro, è bello per noi stare qui!”. Egli non ha capito il senso della salita del monte. Gesù sta dando inizio al suo ultimo viaggio, che lo porterà a Gerusalemme, dove sarà disprezzato e crocifisso: egli accetta già in anticipo questa orribile sofferenza e la luce che riempie la sua persona è la risposta di Dio, che lo accredita davanti ai discepoli  e a ogni uomo: “Questo è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!”.

              Ma come può Dio chiedere la morte al proprio Figlio? La domanda accompagna il cammino di Gesù, che viene sollecitato a confermare, ad ogni passo, il suo libero dono. I tre discepoli saranno testimoni di un’altra trasfigurazione, questa volta di segno opposto, quando il Maestro suderà sangue nell’Orto degli Ulivi e si compirà la profezia di Isaia: “Non ha bellezza per attirare i nostri sguardi; … disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori, … come uno davanti al quale ci si copre la faccia” (Is 53,2-3). Poche ore dopo, sul Golgota, verrà riproposta la richiesta: “Se sei Figlio di Dio, scendi dalla croce e ti crederemo”. Da allora, ogni giorno, qualcuno ripete queste parole, qualche volta con disprezzo, ma molto più spesso dolorosamente, nell’angoscia di fronte al male che sembra invincibile.

              Ci viene detto, allora, che la ricompensa dell’obbedienza filiale di Gesù sarà la risurrezione? Non è così: il Tabor e l’Orto degli Ulivi si includono a vicenda. Oggi, siamo chiamati anche noi a contemplare la bellezza dell’Uomo dei Dolori, del Crocifisso. Ma di quale bellezza può trattarsi? Non è la croce il supplizio più turpe, l’impotenza più radicale dell’uomo? A cosa può servire un crocifisso? Ne abbiamo già tanti, schiantati dalle guerre, affogati nel mare, violati nella loro dignità, uomini e donne “scartati”, come dice il Papa: davvero, avremmo piuttosto bisogno di un potere che facesse giustizia, guarisse le ferite di un’umanità così dolente.

              La festa di oggi vuole aiutarci a scoprire la bellezza di un Dio crocifisso: è la bellezza dell’amore. La croce toglie ogni banalità alla frase: “Dio è amore”; infatti, “in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati”, come dice uno dei testimoni del Tabor, Giovanni (1Gv 4,10). Ci viene detto che Dio ama l’uomo, questo uomo, con il suo carico di miserie, di malvagità, di angosce. Dunque, c’è in ogni uomo un riflesso di quella luce, c’è una dignità nascosta, della quale ciascuno di noi è responsabile.

              Dio ci consegna il suo Figlio e nello stesso tempo consegna noi a noi stessi, perché ci rivela il valore che noi abbiamo ai suoi occhi. Ci chiede anche di accogliere il suo invito: “Ascoltatelo!”. Possiamo intendere questa parola come una sfida o, piuttosto, come una promessa: la promessa che Gesù è la via perché la luce buona del Tabor si diffonda, consoli, incoraggi, guarisca.

08 agosto 2021                                                                  don Giuseppe Dossetti