“UN SOLO CORPO” – 93^ lettera alla comunità al tempo del coronavirus – don Giuseppe


Ricorre in questi giorni la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Si tratta di una ricorrenza ignota ai più, perché ormai ci siamo abituati alle divisioni tra le varie Chiese, addirittura millenaria quella con le Chiese ortodosse: ufficialmente, essa data al 1054, quando il cardinale Umberto da Silvacandida depose sull’altare di Santa Sofia la bolla di scomunica del Patriarca di Costantinopoli. A sua volta, la Riforma protestante risale ormai a cinquecento anni fa.

Da poco più di cento anni, si è cominciato a indire una preghiera comune, prima di tutto per tener vivo lo scandalo di fronte a queste divisioni. Infatti, l’unità dei discepoli è l’ultimo, esplicito desiderio di Gesù: nell’ultima cena, nella consapevole offerta della sua vita, egli prega così: “Che tutti siano una cosa sola; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21). Purtroppo, queste parole così esplicite e accorate del Fondatore non trovano un riscontro frequente nella coscienza e nei desideri dei suoi discepoli, nonostante egli indichi che l’unità, la comunione nella fede e nella carità sia la via “perché il mondo creda”.

Invero, essa manifesta la diversità dell’Evangelo rispetto al “mondo”. Infatti, la “normalità” della storia umana è proprio il conflitto, la contrapposizione, la guerra. Tuttora, nonostante le terribili smentite dell’ultimo secolo, si continua a pensare che la guerra, comunque essa venga chiamata, possa essere uno strumento per affrontare i grandi problemi del mondo. Tra tutti gli esempi, quello che mi tocca maggiormente, per le vicende della mia vita, è quello del Medio Oriente. La repressione violenta dei diritti dei palestinesi da parte dei governi israeliani, le guerre in Iraq, la Siria, sono tutti esempi che la violenza genera altra violenza, che quello che dovrebbe essere l’ultimo atto della tragedia, in realtà l’aggrava, aumentando le ingiustizie e l’odio, che prima o poi genera altra violenza.

Si tace sul fatto che, chi paga il conto più alto di queste guerre, sono le comunità cristiane locali, antichissime, ma che si sono dissanguate, per l’emigrazione di tanti loro fedeli. L’esempio è l’Iraq: prima degli interventi occidentali, i cristiani in Iraq erano un milione e duecentomila: oggi, sono trecentomila. L’ultima terribile conferma è il rapporto uscito in questi giorni e presentato alla Camera dei Deputati, nel quale si dice che il paese più pericoloso per i cristiani è diventato l’Afghanistan: non c’è male, dopo tanti anni, tanti morti e tanti soldi usati per “esportare la democrazia”.

Per tutto ciò, la novità evangelica sta proprio nel perseguire a tutti i costi l’unità, la concordia, l’accoglienza reciproca, a cominciare dalle famiglie e dalle comunità di fede. Tuttavia, a questa ricerca dell’unità bisogna dare un fondamento più solido, rispetto all’esortazione a cercare la composizione dei conflitti: infatti, se essa rimane affidata alla volontà dell’uomo, diciamo pure al suo arbitrio, l’uomo sarà sempre capace di trovare eccezioni e giustificazioni.

Per noi, il fondamento sta nel sacrificio di Gesù, nell’aver egli assunto in sé la violenza omicida dell’uomo. Solo quando, di fronte alla Croce, cominciamo a sentirci responsabili di essa, per la nostra parte, cresce allora un sentimento di debito verso l’uomo, verso ogni uomo. Ci sono, però, alcuni aspetti che vanno sottolineati.

Anzitutto, la rinuncia ai conflitti di potere. Su questo, Gesù è esplicito, quando lava i piedi ai discepoli prima dell’Ultima Cena: “Se io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri” (Gv 13,14). San Paolo,coerentemente, ne conclude: se voi tenete davanti agli occhi l’esempio di Gesù, “siate sottomessi gli uni agli altri” (Ef 5,21). Per questa ragione, mi lasciano freddo, anzi, mi preoccupano i discorsi sulla riforma della Chiesa che, in buona sostanza, consistono nel proporre diversi assetti di potere al suo interno. E’ certo che la dignità e la libertà dei figli di Dio vanno riconosciute e promosse, ma non dimentichiamo che questa libertà consiste nel mettersi liberamente al servizio degli altri. La seconda considerazione, ci è suggerita da san Paolo. Egli esorta i Corinzi a mettere al servizio del bene comune i doni di ciascuno e usa l’esempio, ben noto al mondo greco e romano, del corpo: le membra sono diverse, ma ciascuna contribuisce al bene dell’unico corpo. Ma aggiunge: “Le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie” (1 Cor 12,22). L’unità e la concordia si raggiungono se si mettono i piccoli al centro del nostro interesse e del nostro agire.

23 gennaio 2022                                                          don Giuseppe Dossetti