Decima lettera alla comunità al tempo del coronavirus

                Finalmente, da domenica 24 maggio, potremo di nuovo celebrare l’Eucaristia nelle nostre chiese. Si tratta di un grande dono, ma anche dell’occasione per riflettere. Ci sentiamo come se Noè avesse aperto le porte dell’arca e, con cautela, incominciassimo a scenderne dopo il diluvio. La primavera ci accoglie, con lo slancio esuberante di una vita che ricomincia. Siamo tentati di dimenticare il passato: punto e a capo. Forse, dimenticheremo anche i morti, e questo non sarebbe giusto, perché (lo abbiamo detto tutti) questa pandemia ci dovrebbe aver ricordato i nostri limiti, dovrebbe aver colpito la nostra presunzione di immortalità. Ma non è forse Pasqua? Non siamo dunque anche noi dei risorti?

                Risurrezione: parola straordinaria, che però suscita problemi, quando viene applicata al Titolare, a quel Gesù che “risorto dai morti non muore più”, come dice il suo seguace Paolo di Tarso (Rom 6,9). E’ più facile un’interpretazione che la riduca a un momento dell’eterno ciclo dell’esistenza, nel quale morte e vita si susseguono, come inevitabili fasi dell’essere.

                Ai discepoli del Risorto compete, come ricorda san Pietro nella seconda lettura, di essere “pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,15); questo però richiede qualcosa di più di un riferimento al catechismo: è necessaria un’esperienza, come concreta esperienza è stata quella di vederlo crocifisso e sepolto. Come è possibile questo? Quale attestazione i cristiani possono portare, anzitutto a se stessi, che il loro Maestro è vivo? E come immaginare questa vita, una vita che non si vede  e non si tocca?

                La risposta è affidata al “paraclito”, il titolo col quale viene indicato lo Spirito Santo, “Spirito di verità”, quindi deputato proprio a introdurci in questa verità “pesante”. Il paraclito era l’avvocato difensore, che assisteva l’imputato nel processo, incoraggiandolo e consolandolo; per questo, il termine viene tradotto anche “consolatore”. Ma chi è l’imputato? Certamente, siamo noi cristiani, accusati di perdere il nostro tempo seguendo ideali impraticabili, basati su dottrine antiquate e mitologiche. Ma lo è prima di tutto Dio, quel Dio che Gesù chiama “Padre”, e che non salva quel Figlio che pure ha dichiarato di amare, che sembra essere assente nel momento supremo, nel quale le promesse dovrebbero essere mantenute.

                Va fatta una premessa. L’uomo non ha il diritto di chiamare Dio al proprio tribunale. Dio non è un oggetto, del quale impadronirsi con i metodi della conoscenza scientifica o storica. La conoscenza di Dio non può avvenire, se non esiste una “assimilazione” tra colui che conosce e colui che viene conosciuto. Come mettere il mare dentro a un bicchiere? Come accogliere in noi l’abisso dell’essere divino? Questa trasformazione dell’uomo avviene proprio grazie all’azione dello Spirito Santo, Spirito creatore, che guida con sapienza e dolcezza quel “trasumanare”, come lo chiama Dante (Paradiso I,70), l’andare dell’uomo oltre se stesso, oltre i propri limiti, fino a poter contemplare lo splendore divino. Nella storia quotidiana di ciascuno di noi, questo avviene mediante l’amore, acconsentendo alle richieste che il Paraclito ci suggerisce, ben diverse da quelle di una legge, pur se elevata. In realtà, la vita cristiana non consiste nell’obbedienza a un comandamento, ma nell’acconsentire all’invito che ci rivolge quel Tu, che continua a ricordarci di essere stato lui il primo a decidersi per noi, fino alla radicale decisione della Croce. Conoscenza e amore si rapportano in una perfetta circolarità: la conoscenza della fede attiva l’amore, l’amore permette una più perfetta conoscenza, che “innamora” maggiormente dell’amato, fino a una perfetta unione: “Io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi”.

                A quel punto, la risurrezione non ha bisogno di essere dimostrata, come non c’è bisogno di dimostrare l’esistenza del sole in una giornata di giugno: essa diventa l’esperienza di una vita nuova, che già possediamo, che ci chiede di crescere, e la fatica del crescere non ci accòra, perché è esperienza di vita e di pace.

                Lasciamoci dunque trasportare dallo Spirito, cari fratelli e amici: forse, in questi due mesi, abbiamo avuto l’occasione di ascoltarlo di più. Soprattutto, chiediamogli di poter ricominciare ogni giorno, senza turbarci per i nostri limiti, ma chiedendo, con preghiera infallibile, di compiere quello che ha fatto in Gesù, guidandolo a raggiungere la perfezione del suo essere Figlio.

17 maggio 2020.   Don Giuseppe.