Scrivo questa lettera nella giornata dedicata alla memoria dei morti per coronavirus. Ho rivisto il simbolo di questa grande tragedia, il corteo dei camion militari, carichi delle bare insepolte, che sfila di notte nelle vie di Bergamo. Mi sono chiesto, ancora una volta, se tutto questo può avere un senso. La prima parola che è affiorata alla mia mente, è stata “infecondità”. La vita nasce dall’incontro: un bimbo nasce dall’incontro tra un uomo e una donna. Quei camion, invece, sembrano essere l’annuncio di un pericolo, dal quale bisogna difendersi: temo che, in futuro, molti vedranno il pericolo non nel virus, ma nell’altro uomo. Lo abbiamo già visto a proposito dello straniero, dell’immigrato. Più in generale, il rischio sarà la chiusura, la difesa, la paura. La conseguenza, sarà l’inaridimento della fonte della vita, che è appunto l’incontro con l’altro essere umano.

              C’è un’alternativa? La dovremo costruire, perché solo un percorso onesto e generoso potrà aprire menti e cuori. L’onestà si misura dal silenzio, dal rifiuto delle risposte semplicistiche; il dolore è prima di tutto un mistero, che va accostato con reverenza. Dobbiamo avere il coraggio di custodire le immagini della sofferenza dell’uomo, lasciando che esse ci interroghino; anche questa è “tenerezza”, la parola favorita di Papa Francesco.

              Se ci incammineremo per questa via, penso che, a poco a poco, potremo sentire come nostra la sofferenza degli altri uomini, ricuperando quindi una prima verità, che siamo tutti fratelli. Vorrei che tutti, uomini politici, giornalisti, ma anche preti e tutti coloro che possono influire sulle opinioni degli altri, abbassassero i toni. Spesso, non si immagina quanto male facciano la contrapposizione, le parole urlate, l’identificazione del nemico: il risultato è inevitabilmente il ritiro nella solitudine e quindi l’inaridimento e l’infecondità.

              Gesù ha vissuto questo interrogativo per se stesso. Pochi giorni prima della sua passione, dice alle folle: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Questa è anzitutto la sua via personale. Egli la sceglie con una consapevolezza che ci abbaglia, con una fede incredibile: “Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò a me tutti”; e l’evangelista commenta, “diceva questo per indicare di quale morte doveva morire” (v.32).

              Avvertiamo, però, la pretesa che egli mette in campo. La sua parola è rivolta a tutti, non è una via ascetica per pochi eroi della fede; possiamo dire, addirittura, che questa è la proposta politica di Gesù. La fecondità nasce dalla mitezza. Mitezza è sempre un morire a se stessi, perché è accoglienza dell’altro, è uno sguardo di tenerezza rivolto anche a chi sbaglia, consapevoli che anche noi abbiamo bisogno di perdono. Tenerezza è anche saper rinunciare a programmi generosi, per camminare al passo di chi è più debole e zoppica.

              La sua via, Gesù la propone a tutti: “Chi ama la propria vita, la perde e chi odia (semitismo: “è disposto a rinunciare”) la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (v.25). La storia che stiamo vivendo è, nello stesso tempo, una conferma e una sfida. E’ una conferma, perché la croce di Gesù abbatte tutti i muri che separano l’uomo dall’uomo, è la forma estrema della prossimità, a tutti, anche al ladrone: “Oggi sarai con me in paradiso”. Ma è anche una sfida: sapremo noi seguire la via della mitezza? Chi segue la via della forza e del successo, non può resistere di fronte al dolore dell’uomo, lo dimenticherà al più presto. Penso, invece, che stare accanto a chi soffre, magari in silenzio, lasciando che questo mistero ci interroghi, ci renda disponibili, anzi, desiderosi dell’incontro col fratello uomo. Allora, l’albero della vita germoglierà ancora e darà frutto, e i morti continueranno ad essere compagni del nostro cammino.

21 marzo 2021                                                                      don Giuseppe Dossetti