189^ lettera alla comunità al tempo della conversione

Sono stato in Terrasanta all’inizio di marzo, per vistare i miei amici, arabi ed ebrei, che ho conosciuto nei miei pellegrinaggi. Un po’ di paura c’era, ma in realtà non ho mai avuto la sensazione del pericolo: invece, ho provato una grande tristezza.

La formula “due popoli, due stati”, tanto più viene usata quanto più ci si allontana dal teatro degli eventi. Chi vive in Israele-Palestina prova sulla sua pelle tutto il peso degli ostacoli, anche solo per iniziare a parlarne. Quello che sarebbe necessario e preliminare è il reciproco riconoscimento tra i due popoli, molto più difficile dopo le atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre e dopo la conseguente carneficina ad opera dell’esercito di Israele.

Montagne di odio e di sfiducia, già presenti prima, sono ora arrivate a livelli tali da far disperare che sia possibile anche solo la convivenza. Forse, gli estremisti delle due parti vogliono proprio questo, in appoggio alla loro intenzione dichiarata di distruggere l’avversario. Hamas sostiene nel suo statuto la cacciata di tutti gli ebrei dalla terra di Israele; il partito dei coloni, presente nel governo Netanyahu, e gli altri estremisti, dichiarano di voler cacciare tutti gli arabi al di là del Giordano, perché, dicono, “questa terra è nostra, abitata dai nostri padri; gli intrusi e usurpatori sono loro, gli arabi”.

Il riconoscimento reciproco è il punto di partenza necessario, per contrastare queste ideologie radicali e razziste; e comunque, si tratta di iniziare un percorso, che sarà terribilmente lungo. Chi vive fuori della Terrasanta ha però il dovere e la possibilità di dare un contributo. Il nostro piccolo viaggio è andato in quella direzione, perché abbiamo incontrato amici arabi ed ebrei, confermando loro la nostra amicizia e fiducia. Siamo stati ricambiati da una grande gratitudine.

Dicevo di una grande tristezza. Gerusalemme e Betlemme sono vuote, non ci sono pellegrini e turisti. L’economia delle famiglie, basata sul turismo, è al lumicino: alberghi e ristoranti sono chiusi, gli autobus fermi, i permessi per lavorare in Israele sono sospesi. L’agricoltura è insidiata dalle incursioni e dalle usurpazione di terre ad opera dei coloni. Anche Israele sta pagando prezzi meno evidenti ma forse ancora più alti. L’economia israeliana soffre per la mancanza di manodopera e alcune ditte si stanno trasferendo all’estero. L’emigrazione tenta arabi ed ebrei e questo mette in discussione l’ideologia sottostante all’identità di Israele. Infatti, la motivazione, che stava all’origine del movimento sionista, era la necessità di costituire uno stato ebraico, nel quale potessero rifugiarsi e vivere in sicurezza gli ebrei di ogni parte del mondo, qualora la loro esistenza fosse minacciata. Ora, questo mito della sicurezza è venuto meno. E’ andato in crisi anche lo strumento di questa visione dello stato: il prestigio, anzi, quasi la sacralità dell’esercito., visto come l’angelo custode dell’ebreo minacciato. Vergogna e risentimento sono i sentimenti, conseguenti alla sorpresa patita il 7 ottobre. In più, l’esercito regolare, che ha avuto finora un’immagine di sé di sostegno alla democrazia e di coesione sociale, deve fare i conti con un esercito parallelo, violento e abusante, quello dei coloni, armati dai loro rappresentanti nel governo Netanyahu.

Nostro compito è incoraggiare gli uni e gli altri ad accettarsi come interlocutori. Questo non vuol dire ignorare che ci sono oppressi e oppressori, e che da ambo le parti sono stati e sono commessi atti inaccettabili. Ma penso che siano gravissimi e dannosissimi atti come l’esclusione delle donne ebree da alcune manifestazioni che si sono tenute in Italia per l’otto marzo o come l’aver impedito al direttore de La Stampa di parlare all’università di Napoli. Si tratta di atti di negazione dell’altro, per la sua appartenenza etnica, quindi si tratta, in definitiva, di atti razzisti, che rendono più difficile il ruolo, che, invece, l’ Italia e l’Europa potrebbero avere nella grande tragedia del Medio Oriente.

L’invito alla preghiera, formulato dal Patriarca Latino, il card. Pizzaballa, non è una dichiarazione di impotenza, ma l’appello ad ascoltare, nel cuore di ciascuno, la voce del Dio della pace.

24 marzo 2024                                                                                               don Giuseppe Dossetti