Lettera alla comunità al tempo del coronavirus

8 marzo 2020

             “Rialzatevi e non temete”: con queste parole, Gesù conclude l’episodio della sua trasfigurazione sul monte Tabor, nel vangelo che leggiamo in questa seconda domenica di Quaresima, che è anche la seconda domenica nella quale l’epidemia ci costringe a limitare fortemente l’ordinaria vita delle nostre parrocchie.

            Anch’io vivo una vita come sospesa, in un’incertezza che può diventare logorante. Devo e voglio reagire, usando bene il tempo e cercando luce nella Parola di Dio. Per questo, desidero condividere con voi alcune riflessioni.

            La prima evidenza è la nostra fragilità. Si tratta di una fragilità essenziale, non transitoria. Ecco perché non è appropriato usare terminologie militari, come se stessimo combattendo una battaglia. In un certo senso è vero, come è certo che, a un certo punto, arriverà la “vittoria”, quando il virus avrà compiuto il suo corso. Ma questo non deve significare che allora tutto rientrerà nella normalità di una vita sicura, garantita dalla scienza. Questa epidemia è un richiamo a riconoscere la nostra realtà, fragile, e a considerare il senso dei nostri limiti, che esistono sempre, anche quando ci illudiamo di non averne.

            Questo vale ancora di più per la Chiesa. Noi siamo i seguaci di un Gesù, che ha appena annunciato ai suoi discepoli la propria passione. La salita al monte sembra quasi un distacco da ogni sicurezza umana. Immaginiamo l’animo di Gesù mentre sale l’erta ripida del Tabor: sicuramente avrà pensato al suo antenato, Abramo, che sale il Moria e ad ogni passo deve confermare il suo consenso al sacrificio del figlio Isacco. Domenica scorsa, Satana lo aveva portato sul “monte altissimo”, il monte del potere e della ricchezza; Gesù ne era sceso, rifiutando la gloria degli uomini, per salire sul monte del sacrificio. Lì lo aspetta la gloria di Dio.

            San Paolo legge la vita del cristiano proprio nella prospettiva della Trasfigurazione. Egli rivolge al suo discepolo Timoteo l’invito: “Soffri con me per il Vangelo”. Nella prima lettura di oggi, Dio chiede ad Abramo di lasciare tutto, la terra, la parentela, la casa, le sicurezze, i programmi. Ma c’è una “vocazione santa”, un richiamo, un invito, che Dio ci rivolge, mosso non dalle nostre “opere”, dai nostri meriti, dalle nostre strutture, dalla potenza dell’organizzazione; Egli, piuttosto, ci chiama a sé “secondo il suo progetto e la sua grazia”, cioè mosso dal suo gratuito amore, da una sapienza che non è la nostra, che comprendiamo solo quando ci siamo consegnati.

            Tuttavia, la “gloria”, tanto per Gesù quanto per noi, non è semplicemente qualcosa di futuro. Sempre Paolo dice che questa “grazia”, originaria, concepita nel seno di Dio prima che il mondo fosse, si è “rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù: Egli ha vinto la morte” – ben strana vittoria, apparentemente, quella della croce! Ma proprio attraverso la croce, attraverso la consegna completa di se stesso, “ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del vangelo”.

            Questa è anche la via che Egli propone ai suoi discepoli, a noi. Ci dice che, se ci consegneremo alla volontà di Dio, già da ora, fin da adesso, faremo l’esperienza di questa luce interiore, che sarà di consolazione e gioia, che vince il mondo con i suoi allettamenti e le sue tristezze, e ci porta ad esclamare come Pietro: “Signore, è bello per noi essere qui!”

            Questo non vuol dire rassegnazione. L’obbedienza di Abramo è attiva, concreta. Uscire dalla sua terra lo porterà a decisioni coraggiose, alla perseveranza, a una quotidiana fedeltà. Così deve essere anche per noi. Qualcuno ha scritto, in questi giorni, che viene richiesto a tutti l’eroismo, che consiste nel compiere ciascuno il proprio dovere.

            Per noi, ci saranno due motivi in più per il nostro impegno nella preghiera.

            Qualcuno potrebbe dire: a che serve pregare? Consegnarsi alla volontà di Dio sarebbe, secondo alcuni, rassegnarsi al suo progetto, incomprensibile e immutabile. Ora, è certo che la volontà di Dio è immutabile, ma è l’immutabilità dell’amore. E’ in altre parole un’immutabilità “dialogica”, che sollecita l’uomo a mutare il suo atteggiamento, proprio perché l’immutabile amore di Dio possa esplicarsi appieno. La preghiera ci libera dalla pretesa di portare Dio al nostro tribunale, apre la mente per comprendere le sue vie, anche se non sono le nostre, apre la nostra mano per ricevere il suo dono.

            Il secondo motivo per impegnarci di più nella preghiera è che noi cristiani siamo i sacerdoti dell’umanità. Immaginiamo cosa sta accadendo nella coscienza degli uomini, in questi giorni: quanto dolore, quanta protesta, quanta rassegnazione passiva, quanti dubbi e interrogativi; ma anche quanti slanci, quante riflessioni, quanta riconoscenza per l’aiuto ricevuto, quanta compassione generosa.

            Come orientare questo patrimonio morale? Come dargli un senso? Credo che competa ai cristiani essere consapevoli che i loro fratelli uomini sono affidati a loro, alla loro intercessione.

            Noi siamo sempre più una Chiesa che non può competere col mondo con le armi del mondo. D’altra parte, il mondo è affidato a noi da Gesù stesso. Nell’ultima cena, egli ha pregato così: “ Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola:  perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato.  E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa.  Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me” (Gv 17,20-23).

                                                                                   Don Giuseppe Dossetti

Unità Pastorale “Santa Maria Maddalena”, Reggio Emilia  –  08 marzo 2020

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