In uno dei passi più famosi del Vangelo, viene chiesto a Gesù se si deve pagare la tassa che i Romani imponevano ai sudditi delle province. Gesù risponde: “Date a Cesare, cioè all’Imperatore, quello che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Mt 22,21).

              In questo momento difficile per il mondo intero, tempo di grande disorientamento, potremmo riproporre la domanda: “Dobbiamo obbedire all’autorità, che ci chiede di sottometterci a certe limitazioni, per cercare di contenere la diffusione del virus, oppure no?”. La risposta è la stessa: date ai medici e ai governanti quello che è loro, cioè l’obbedienza alle loro prescrizioni, ma date a Dio quel che è di Dio.

              Gesù ci sorprende e un poco anche ci inquieta: qual è la parte di Cesare e quale quella di Dio? Ma a Dio si può dare solo una parte? E dargli tutto, che cosa può voler dire?

              In realtà, il pensiero di Gesù, se consideriamo il vangelo nel suo insieme, è chiaro. L’ordinamento delle cose umane richiede la necessaria obbedienza alle leggi e alle legittime autorità. Tuttavia, Cesare presidia ciò che è parziale e provvisorio. E’ cosa doverosa e anche utile, ma non risponde alle domande dolorose sul senso della vita e della morte. Possiamo aspirare alla salute e alla guarigione, ma rimane il “confinamento”. Meglio confinamento di lockdown. Il lockdown è la chiusura a chiave e la chiave viene nascosta, fino a quando non si sa. Il confinamento è essere riportati entro i nostri confini, entro i nostri limiti: dura medicina contro la nostra presunzione ma, nello stesso tempo, il confinamento crea uno spazio di silenzio, nel quale possono trovar voce le aspirazioni più nobili dell’uomo, il desiderio della totalità e dell’eternità.

              Dare a Dio quel che è di Dio, vuol dire anzitutto proprio questo: riconoscerlo come colui che ci ha messo nell’angolo, ci ha confinato, perché non sfuggiamo al rapporto con Lui, come avviene per Giobbe (sarebbe molto utile leggere quel capolavoro che è il libro biblico che porta il suo nome). Si tratta di un rapporto duro, che conosce la protesta e la contesa. Giobbe non esita ad accusare Dio, a fargli la domanda estrema: “Perché hai acceso contro di me la tua ira e mi consideri tuo nemico?” (cfr. Gb 19,10). Proprio da questa lotta nasce la speranza. Infatti, la dignità dell’uomo dipende dal suo avversario: l’uomo che lotta con Dio entra in un’altra dimensione, quella che si esprime nella parola “per sempre”.

              Le cose di questa terra non sono per sempre e non da quando c’è il coronavirus. Il virus ce lo ha ricordato brutalmente e questo ci può portare a una ricerca più umile e più onesta. Giobbe, che lotta con Dio, non aspetta consolazione dai suoi amici, gente perbene, che però ha fatto della religione un sistema a protezione della loro pigrizia spirituale; è solo un apparente paradosso che Giobbe cerchi il compimento delle sue aspirazioni proprio presso colui che ha apostrofato come il suo avversario: “Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno non da straniero” (Gb 19,25-27).

              Dio non disprezza la nostra povera preghiera e non dobbiamo disprezzarla neppure noi. Insistiamo, usiamo le parole che ci vengono spontanee e magari ci sembrano confuse: Lui sa leggere nel cuore dell’uomo.

              Nello stesso tempo, Dio non può volere se non la totalità. Cesare si accontenta del tributo, Dio non si accontenta delle nostre buone opere. “Non quaero datum tuum, sed te”, non cerco le tue prestazioni, cerco te, dice l’Imitazione di Cristo (4,8). Dio ci stringe nella lotta, perché gli diciamo anche noi lo stesso.