Sesta lettera alla comunità al tempo del coronavirus

            Oggi, leggendo la seconda lettura di questa domenica, dalla Prima Lettera di Pietro (1,3-9),ho provato a riflettere su due frasi, che stiamo usando un po’ tutti. Anzitutto, “le cose non saranno più come prima” e “dovremo abituarci a convivere col virus”. Sono affermazioni ovvie, ma ancora troppo generiche. Proviamo a riempirle di contenuti.

            L’Apostolo ci dice: “Siete stati rigenerati, cioè, siete nati di nuovo, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti”: il vero passaggio, irrevocabile, è il battesimo, che è partecipazione alla risurrezione di Gesù. Forse, ci siamo dimenticati del nostro battesimo: è il caso di riprenderne coscienza, con una sincera revisione di vita, ammettendo a noi stessi, prima di tutto, i nostri errori e chiedendo la misericordia di Dio per riprendere la crescita spirituale e morale che abbiamo interrotto o superficialmente trascurato. Il perdono di Dio è energia nuova, una sapienza nuova, che ci fa guardare in avanti, ci fa dire, con san Paolo, “le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17).

            Lo sguardo nuovo ci aiuta a valutare saggiamente anche l’affermazione che dobbiamo abituarci a convivere col virus. Diciamolo chiaramente: dobbiamo abituarci a convivere con il limite e quindi anche con la morte. Il cristiano ama la vita, la considera un dono stupendo; ma, come dice san Pietro, in questo breve spazio che abitiamo è presente “un’eredità che non si corrompe,non si macchia e non marcisce”: è a quella eredità che debbono essere rivolti la nostra mente e il nostro cuore. Il cristiano è pur sempre un pellegrino: amo la frase della Lettera a Diogneto (secondo secolo dopo Cristo): i cristiani “vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro e ogni patria è straniera”. Convivere col virus, significa rinunciare alla pretesa di essere padroni del mondo e orientare sempre di più i nostri desideri a ciò che, peraltro, è già presente, pur in mezzo alle tribolazioni. Per questo, l’apostolo parla di una “gioia indicibile e gloriosa”, che nasce dalla certezza che “siamo custoditi dalla potenza di Dio”. Le tribolazioni sono paragonate al fuoco, che purifica e rende più prezioso l’oro: questo pensiero ci dà il coraggio di non sottrarci alle responsabilità della città terrena, anzi, di amarla e di amare i nostri concittadini, di un amore disinteressato, perché il nostro tesoro è altrove.

            Perdonate, ora, una piccola pedanteria. Mi è venuto in mente il motto, che il vescovo Baroni aveva scelto per il suo stemma episcopale: in latino, “ad coelum aedificemur”. Con superficialità, a lungo ho pensato che volesse dire: “edifichiamo per il cielo”. Poi, però, ho notato che il verbo è al passivo e dovrebbe essere quindi tradotto: “Siamo edificati per il cielo”. Ma ho scoperto, infine, che si tratta di una citazione da sant’Agostino, che usa non l’indicativo, ma il congiuntivo, con valenza imperativa: don Francesco Marmiroli, commemorando il vescovo Gilberto, ha tradotto bene: “lasciamoci edificare per il cielo”. Ecco, la grazia di Dio e la libertà dell’uomo si incontrano. Sant’Agostino paragona la Chiesa e la nostra vita a una costruzione che ha le fondamenta in cielo, non in terra, una costruzione rovesciata: dovremmo rovesciare anche noi i nostri metri di giudizio. Lasciamoci quindi guidare dallo Spirito, che costruisce in noi l’uomo nuovo: le tribolazioni sono i colpi di scalpello, con i quali il divino Artefice ci rende pietre adatte alla sua costruzione: “Avvicinandovi a lui (a Gesù), pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo” (1Pt 2,4-5). Popolo di sacerdoti, quindi, che portano nella preghiera e nell’azione le gioie, i dolori, le necessità degli uomini loro fratelli.

Don Giuseppe Dossetti

19 aprile 2020

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